

Nella puntata precedente avevo raccontato di come era nato il campionario, ma avevo omesso di specificare che a causa sua avevo dovuto compilare ben 11 alfabeti completi, colorati al ritmo di una compilation epica, mentre sudavo a ferragosto e rabbrividivo a Natale.
Pensavo che sarebbe stato facile mettere in fila i miei alfabeti e poi raccontare i pochi movimenti, che, in effetti, sono coinvolti in un ricamo a punto pieno. Avrei gettato qua e là qualche informazione, via via più dettagliata ad ogni difficoltà aggiunta negli alfabeti più difficili e in men che non si dica sarebbe nata la mia dispensa sul punto pieno.
Ebbene… Quando mi trovai faccia a faccia con lo schermo del PC e dita a dita con la tastiera, una leggera nebbia si levò all’orizzonte e, sul calar di una sera primaverile, mentre l’usignola trillava la buona notte ai suoi piccini, capii che avevo sbagliato tutto.
Non era la sindrome da foglio bianco… No! No!
Le parole sulla tastiera sgorgavano.
Sgorgavano copiose!
Questo era il problema.
Sgorgavano copiose e chiamavano a gran voce delle illustrazioni.
Il fatto è che, quando ricami, non pensi a quello che stai facendo: le tue mani volano sulla tela, ma se io chiedessi ora, mentre si tira un filo, in quale direzione lo si tirerà tra un secondo… Forse mi giungerebbe uno sguardo spaesato. Qual è il punto? Codificare i nostri movimenti, dar loro un nome e argomentare per quale dannata ragione in un caso tiriamo di qui e nell’altro di là, e perché tiriamo poco sotto e di più sopra, è roba che non si fa e non si realizza in cinque minuti.
In cinque minuti la si mima e la si imita. Non la si scrive e non la si racconta.
E mentre i piccini dell’usignola sognavano di sorvolare l’Everest, grandi come aquile, io chiudevo il PC e affilavo le matite.
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