A pagina 31 di Un alfabeto a fiori, propongo una palette piuttosto pallida, risultato di un percorso sperimentale che rimarrà per sempre nella mia memoria, essendo stato il primo nel suo genere e avendomi regalato grandi insegnamenti.
Mi sembra di fare una di quelle puntate di riepilogo delle serie TV, in cui non succede niente e ti pare che quella volta il regista non avesse tanta voglia di lavorare e avesse deciso di giocare facile recuperando vecchie scene. Spero che mi perdonerete. L’obiettivo è di ripercorrere il lavoro, per aggiungere quelle spiegazioni che, per esigenze di spazio, non potevo riportare sull’album. Il senno di poi e le foto di insieme mi consentono inoltre di vedere la cosa da una prospettiva diversa. Segue dunque questo post a quello sulla lettera A.
Ero partita da una serie di campionari nati grazie all’ozio di una vacanza a Jesolo (progetto Conchiglierie). Le conchiglie erano state il pretesto per estrarre dalla scatola dei filati colori che forse mai avrei scelto altrimenti. Avevo costruito i campionari per imparare a comporre delle palette sfumate e, una volta ottenutele, mi ero trastullata a trovare esercizi che mi consentissero di usarli in modi differenti.
Selezionando i soli colori più chiari mi ero accorta che casualmente potevano coprire tutta la gamma dei colori naturali dei fiori delle lettere fiorite, a cui allora mi dedicavo in modo piuttosto ossessivo, e la scoperta che il grigio evocasse l’azzurro aveva iniziato a sgretolare i miei preconcetti percettivi, mettendomi di fronte alla mia ottusità, che cercava gli azzurri soltanto nella colonna degli azzurri della cartella colori.

Con quei colori selezionati avevo costruito ulteriori campionari che mettessero in luce la diversa resa dei colori su sfondi diversi e avevo scoperto quanto la stoffa di partenza ne alterasse la percezione.
Nacque una ghirlanda, il cui disegno è riportato a pagina 66. Avevo scelto una canapa antica proveniente da un torsello acquistato al mercatino dell’Antiquariato di Piazzola sul Brenta. Ci avevo ricavato un tendone che nascondesse il delirio del sottoscala, optando per un orlo cucito a macchina, vista la resistenza tenace del filo a farsi estrarre per un orlo a giorno. Ai lati avevo lasciato le belle cimose di questi pannelli tessuti a mano. 
Ogni canapone ha la sua ruvidezza. Su un piccolo pezzo d’altra origine avevo lavorato con delizia. Qui mi ero disfatta le dita. Però mi piace tanto.

Sul libro i colori delle iniziali sono più vivide. Credo che in parte i colori tinti a mano che avevo usato per il punto pieno si siano sbiaditi al lavaggio. Ma… Come qualcuno mi disse una volta, il vantaggio dei tinti con le erbe naturali è che, anche se sbiadiscono, sbiadiscono in modo naturale. E di fatto forse ora i colori sono meglio armonizzati.
Nel tempo ho visto che qualcuno ha riprodotto questa ghirlanda. Per esigenze di spazio non avevo mostrato l’espansione dei nastri del fiocco. Se può essere d’ispirazione a qualcuno, ecco come avevo risolto io…

Con la sfumatura completa avevo anche ricamato lettera a punto erba rasatello e punto pittura. Questa lettera non compare sul libro, ma trovo interessante postarla in quest’occasione, per dimostrare quanto materiale possa nascere da un’idea apparentemente sciocca e inutile, quale quella dei campionari delle conchiglie, e soprattutto quanto si possa imparare, a prescindere dal risultato.

Mi sono ritrovata proprio di recente a riflettere sulla domanda a cui siamo tutte costantemente costrette a rispondere, spesso con vago imbarazzo, quando mostriamo un lavoro d’ago: 

Che cosa ci fai poi con questo?
Se qualcuno vi mostrasse un disegno, vi passerebbe per la testa di rivolgere la stessa domanda? Non vi mettereste ad apprezzare o meno lo stile, a complimentarvi per le capacità grafiche ed espressive, a chiedere come ha fatto l’autore a diventare così bravo?
Forse vi trovereste a dire che il disegno è così bello che merita di essere inquadrato, ma la realtà è che siamo abituati a pensare al disegno e alla pittura come arte fine a se stessa e utile alla crescita di un individuo e al ricamo come ad una attività con una missione prettamente pratica e decorativa.
E vi confesso che in parte sono contenta che sia così e vi spiegherò perché quando avrò affinato una sensazione che ancora non ha le parole giuste, ma vi assicuro che è estremamente liberatorio abbandonare il fine ultimo e ricamare come ricerca. 
Che cosa ci fai poi con questo?
Probabilmente niente. Ma sapessi quante cose ho imparato eseguendolo!