Loro dipingevano rose e io avrei tanto voluto avvicinare una seggiolina, tirare fuori la mia, tutta strapazzata (che però ahimè non avevo portato), e stare lì a farmi raccontare di quelle che crescevano intorno, così sane e belle e aromatiche.
Eravamo al giardino del Museo Etnografico delle Dolomiti Bellunesi. Domenica.
Patrizia! Se ci fossi stata anche tu sarebbe stato super… Ma il pavimento non sarebbe rimasto bianco.
Avevo trascinato l’entusiasta famiglia, senza farmi intimidire dalle serie argomentazioni del figlio di mezzo sull’inutilità di una visita guidata ad un giardino di rose, detto inscenando qualcosa come un conato di vomito. Imperturbabile avevo minacciato di fargli saltare la cena, o, peggio, di obbligarlo a mangiare la mia insalata di riso integrale (con mia interpretazione di rimando).
La guida aveva raccontato delle rose antiche e delle rose moderne e siccome un po’ mi ero preparata, sorridevo beata e incameravo le sensazioni che la teoria da libro non ti può regalare, associando vista, tatto e odorato. Non badavo al figlio di mezzo che faceva finta di svenire.
Ah! Il profumo delle rose antiche! Allora è vero che l’Acqua di rose sa di rose!
Non voglio tirarla lunga, anche se avrei una card piena di foto. Mi preme solo annotare che durante la visita mi è tornato un concetto, che da quando mi sono presa e persa a leggere e a ricordare di rose grazie ai ricami di rose, si inserisce tra le righe e si insinua nei pensieri e che è quell’attitudine, tutta umana, di affidare le storie ad una creatura, vitale o artistica che sia, per salvarle dall’oblio e far loro acquisire un senso, nel caos degli eventi.
Alle cure del giardino di Cesio Maggiore è stata affidata la rosa raccolta sul greto del Piave dopo la tragedia del Vajont.
E mi perdo in queste ore a immaginare come l’uomo o la donna, innanzi alla desolazione, con la morte negli occhi, abbia potuto e saputo (e credo ci voglia una certa forza, o dote, o sentimento) scuotersi di dosso il tragico spettacolo e riuscire a muovere l’occhio ed essere in grado di riconoscere una vita silenziosa, a cui forse pochi avrebbero fatto caso, prenderla con sé, cercare qualcuno che potesse prenderla in cura, qualcuno di speciale e di esperto, perché la rosa avrebbe dovuto sopravvivere e raccontare. E dentro questa sua sensibilità intravvedo altre storie, di madri, di cura e di attenzione e il racconto più grande del desiderio e della speranza che nonostante tutto ci sia sempre qualcosa da salvare.
E noi che affidiamo le nostre storie alla tela forse abbiamo imparato nel tempo a direzionare l’occhio in un certo modo, e a interpretare. Nel Museo anche noi possiamo avere orecchio…
E intanto io procedo con la mia rosa strapazzata e mi si muove un sorriso di coincidenza, ad accorgermi che la citazione ricamata, per il grest estivo delle bambine, rimanda a quella cura, nella cura. Ma aspetto foto decenti per ragionarci meglio sopra.
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