Le parole, che sgorgavano copiose e che chiamavano a gran voce le illustrazioni, avevano innescato un processo con reazione a catena: ad ogni illustrazione nasceva la necessità di aggiungerne almeno altre due. Un esempio? La filza di preparazione: due immagini. Ok. Aspetta, però… Non posso non specificare come mettere le mani a telaio!

3 disegni. E i movimenti di correzione della filza?

4 disegni. E così via.

Via quanto? 77 disegni. In un mese e mezzo.

Avevo finito per rosicare fino all’osso la matita rossa e a quel punto avevo vissuto attimi di terrore: avevo realizzato che non sarei più riuscita ad usare il mozzicone di matita: i rossi sono tutti diversi! Per fortuna avevo usato una matita di marca e mia mamma, l’artista vera di casa, sapeva dove andare a pescarne un clone. E’ grazie a questo libro se ho cominciato ad indagare sul mondo delle matite e a cercare di colorare un po’ meglio i miei disegni.

Ho solo il rammarico di aver accettato, senza replicare e con le orecchie basse, l’indiretta frecciata sulla legittimità di chiamare i miei disegni illustrazioni. La mia proverbiale insicurezza (che ci tramandiamo di generazione in generazione) mi ha indotto ad andare a cercarmi il significato del termine e mi sembra che, nonostante i miei disegni non includano fatine che brandiscono una bacchetta magica o draghi possenti che inceneriscono principi, i miei (seppur discutibili) disegni assolvono all’obiettivo di chiarire l’origine, la natura, il contenuto di un oggetto o di un documento, oppure semplicemente sguazzano tra le parole come mera figura o foto a corredo di un testo. Giusto così, per rendere giustizia ad un grosso lavoro.

Certo un professionista avrebbe prodotto disegni così belli  che nessuno avrebbe osato sminuire la sua opera, però il problema è che forse non avrebbe precisamente colto quel movimento, che a me serviva illustrare. Vabbè. Non che sia importante, in realtà. La smetto.

Dunque 77 illustrazioni e tante parole. Come organizzarle? Tutto quello che avevo spiegato passava in rassegna le tre fasi del punto pieno, ma se io avessi ripetuto per ciascun alfabeto cose già spiegate in quelli precedenti, nel mio ideale percorso didattico dall’alfabeto più semplice al più complesso, mi sarei arenata in un’opera immane e confusa.

Ero uscita dal dilemma ipotizzando due grossi capitoli, intitolati Il punto pieno in teoria e il punto pieno in pratica. Il primo avrebbe assolto alla funzione di raccogliere tutta la teoria, con le varianti adatte ai casi e il secondo avrebbe proposto il percorso didattico, con il rimando ai paragrafi utili della teoria specifica.

Il punto pieno in teoria racconta le tre fasi del punto pieno e un ragionamento sulla brillantezza della superficie, che mi sta tanto a cuore. Poi però si dilunga sulle sequenza operative, perché le iniziali, anche se noi le percepiamo come un tutt’uno, sono un intrico di rami che possono essere considerati di per sé un insieme di disegni finiti e sono certa che di fronte ad iniziali molto complesse sarebbero nati molti dubbi, se non avessi incluso il racconto del mio modo di procedere. Infine mi ero sentita di aggiungere anche un paragrafo sulle ornamentazioni di superficie, che sono tanto belle, sull’opzione di tenere la stoffa in mano nella fase di copertura (cosa che io ho fatto per anni, traendone grande giovamento) e sulle scelte stilistiche e di progettazione, nel caso si volessero adattare disegni propri.

Sul punto pieno in pratica… Dirò nel prossimo post!