Il lunedì e il mercoledì sono i sacri giorni della liberazione.
Quelli in cui i bambini vanno dai nonni e in cui assaporo le vibranti note del silenzio.
Era mercoledì.
Vi avevo appena mostrato l’avanzamento dei lavori, confessandovi di non sapere che pesci pigliare a proposito delle sfilature. Ma in realtà avevo già eseguito quattro giri di giliuccio, perché il punto quadro doveva starci.
Mancava dunque la corsia centrale: trovare qualcosa che si armonizzasse col giliuccio e con gli angoli simil-reticello.
L’imminente libertà, le luci del mattino dense di speranza e una leggera brezza che spezzava l’afa, avevano generato l’illusione che sarebbe stato facile e che entro sera avrei addirittura portato a compimento un’intera fila. Avrei lasciato riposare le dita di traverso sul divano, guardando l’interminale serie TV.
Ahimè!
Ad ogni fallimento le tenui luci del mattino si facevano più intense, la brezza si placava e l’afa avanzava. Annodavo fascetti e poi li guastavo. Li rammendavo e ancora disfacevo. I minuti scivolavano tra le dita e le mie speranze ammuffivano. Il caldo avanzava intollerabile e la furia del ventilatore scompigliava i fili.
I quattro giri di giliuccio avevano vanificato la possibilità di copiare, come estrema risorsa, la sfilaturona del libretto antico (mi avevano lasciato troppo poco spazio – come capii in una delle fallimentari prove). Le annodature a onde, che mi avrebbero concesso qui un simpatico richiamo ai pesci che non sapevo come pigliare, svuotavano il lavoro: gli angoli a reticello, tutti coperti di filo e festone, hanno un colore proprio, diverso dai fili di tela. Col senno di poi, i fascetti a X del giliuccio si sarebbero dovuti eseguire a cordoncino (ma avrei esaurito i miei giorni su di essi).
Avendo costruito la sfilatura con un’idea fallimentare, mi trovavo con un numero di fasci in multiplo di 4 e per gran parte della giornata questo rappresentò un condizionamento non indifferente.
Insomma… Conosco la base delle sfilature, ma non è il mio pane. E ho pagato le conseguenze della mia superficialità.
Come è ben noto, il numero di giorni di frustrazione è direttamente proporzionale al numero di ore perse del giorno di libertà.
L’illuminazione avvenne grazie ad una coincidenza numerologica, che mi concesse di tramutare il multiplo di 4 in multiplo di 3. La prova che feci (nonostante abbia dovuto comunque disfarla 5 volte), non mi procurava più nausea o rabbia feroce e giudicai incoraggiante il carattere leggero del mio disgusto.
Prevengo il vostro irrefrenabile desiderio di scrivere tra i commenti che, se avessi fatto un campione prima, non avrei faticato così tanto, confessandovi di aver, D‘ACCORDO!, peccato di superficiale superbia. Credevo che sarei riuscita a trovare facilmente una soluzione, così come ora disegno in quattro e quattro otto una iniziale fiorita. Non ho calcolato che ho impiegato circa sei o sette anni per arrivare a quella destrezza, mentre è sei o sette anni che non ricamo sfilature.
L’esperienza fa la differenza.

Comunque sia, ricamare tutte quelle clessidre mi ha riportato con la mente alla casa della zia d’Arezzo. Sopra alla credenza stava una enorme clessidra con sabbia grigia. Una di quelle clessidre dei film d’avventura, con una cassa di sostegno in legno intarsiato, che generalmente minaccia gli ultimi istanti di vita dell’eroe e che, anche se tutti sappiamo che poi verrà salvato, ci fa lo stesso consumare le unghie dall’ansia… Ricamo davanti alla TV proprio per non rodermi le unghie. Ma quel mercoledì sera ricamai comunque davanti alla TV per recuperare un po’ di tempo. Quando riposi il ricamo mi si era gonfiato il pollice e la cosa mi terrorizzò. Mai saprò se fu la giornata di sfilature o la vendetta dell’orchidea stecchita a causa mia (annegamento colposo), che aveva assoldato qualche insetto per pungermi mentre la schiacciavo nell’umido con la mano. Il mio proverbiale pollice tumefatto
Per fortuna tornò snello in un paio di giorni. Sarebbe stato un disastro stare a  riposo.
12 minuti circa a clessidra. 66 clessidre. 792 minuti. 13 ore.
Nelle ore di silenzio di quel mercoledì ripensai ai viaggi in Umbria successivi alla prima visita ad Assisi e mi accorsi che i miei ricordi si sovrapponevano alle visite in Toscana, come se i confini fossero solo fittizi e la macchia degli etruschi si fondesse con la boscaglia medievale in un continuum, ma recintato, negli spazi limitati della mia infanzia. Vivide nella memoria le selvagge colline di mille colori, per noi esuberanti, avvezzi alla signorile sobrietà delle prealpi vista dal grigiore della pianura.  Vividi anche, tra le vie dei borghi surreali, i colori delle ceramiche in ogni dove, che ammiravo con particolare interesse, come, credo, tutte le ricamatrici.
Non ho mai riflettuto abbastanza sul forte legame tra ceramica e ricamo.
Ora però devo tornare nuovamente all’Assisi. C’è un orlo su cui convogliare i pensieri.