Ero rientrata per andare avanti con il lavoro, un po’ per riscaldarmi, un po’ per la frenesia di posare il filo oro.

Avevo iniziato ad accendere il mio abete di piccoli nodini a due avvolgimenti: il filo oro è troppo “secco” per reggerne tre. I nodini verrebbero gonfi e irregolari. Avevo già da tempo imparato ad evitare anche la vecchia matassina mulinè oro, che si scrosterebbe, letteralmente, eseguendo questi nodini.

Come sempre, tiro bene il filo sulla stoffa e lo stringo attorno all’ago, prima di farlo slittare sotto la superficie della stoffa, che ormai visualizzavo come la coltre di neve che si disperdeva a vista d’occhio oltre la vetrata.

Stretto l’ultimo nodo, indugiavo in quel momento in cui si raccolgono le idee, tra la fine di una sequenza e quella successiva, e avevo gettato lo sguardo sul paesaggio, ma senza mettere bene a fuoco, seguendo semplicemente il corso dei miei pensieri.

Un improbabile gioco di luci turbava la scena!

I miei pensieri erano svaniti e i miei occhi avevano ripreso il controllo. Puntavano dritti sulle mille piccole luci dorate che si stavano accendendo su tutti gli abeti del villaggio e, in particolare, sul frastuono di luci colorate e intermittenti, che con violenza rubava e depredava la scena. Vidi l’uomo reggere un’interminabile scia di pazze luci e, dietro, un corteo di bambinetti e ragazzetti che, apparentemente molto divertiti, come se fossero intenti a fare uno scherzo, reggevano il lungo serpente di luci indecenti sperticandosi dalle risate.

Scrollai il capo ridacchiando e mi fiondai fuori, per giocare il mio ruolo.

Quando l’intero abete più alto (proprio quello davanti alla mia finestra) fu avviluppato in quel reticolo di scandalosa abbondanza, le prime stelle iniziarono a calare danzando sulla sera.

Mi concessi un’ultima passeggiata, ascoltando le note di quella musica che emergeva dai rami e presi la decisione di ricamarle d’oro.

Pallini a punti lanciato, aste a punto indietro, badando di fermare il filo e riavviarlo, ad ogni passaggio tra una nota e l’altra.