Aspettavo a scrivere per fare la sparata del guarda che bello
E invece eccomi qua a lamentarmi.
Avevo tirato parecchio, nel primo periodo di quarantena, per arrivare a consegnare il libro (più per la mia salute mentale, che non per la necessità di una scadenza, che non riesco ancora a scorgere all’orizzonte).
Gli uccelletti iniziavano a gorgheggiare e ricamavo sul seggiolone giallo in giardino, cacciata fuori di casa da Alfredo, che per spiaccicare qualche parola in videoconferenza, non doveva avermi tra i piedi.
Nel caso qualche psicologa legga, prego avvisarmi se la necessità di Alfredo di farmi fuori suona come manifesto campanello di allarme di future apocalissi familiari.
Con l’animo alleggerito dalla non-scadenza e i primi raggi di sole a scaldare il mio eterno infreddolimento, facevo programmi per il futuro, riesumando antichi desideri.
Scelsi il progetto della borsa da cerimonia in cartone, su cui medito da tempo.
Ne avevo comprata una tempo fa ed è lì nell’armadio a sussurrarmi Copiami, copiami... ogni volta che apro le ante. Forse perché è dorata e scintillante e io non ho occasioni dorate per farle fare una passeggiata e in me si mescolano sentimenti contrastanti… Ma non voglio approfittare della pazienza della psicologa di turno e passo oltre…
La realtà è che mi piacerebbe estendere l’uso del ricamo all’abbigliamento, ma io e la moda siamo come la zappa e il tacco a spillo. Eppure ogni tanto ci ricasco. Forse non per me, o forse sì. Forse per aprire un varco, non lo so. Vorrei sperimentare un ricamo portabile, ma ancora non ho le parole giuste per esprimere questa pulsione.
In questa confusione, sono partita, ovviamente, dal progetto più difficile.
Il ricamo vabbè… 
Non mi dispiace, ma potrebbe essere qualunque cosa.
La confezione was the problem.
No…
La confezione is the problem.


Perché l’intuito ti inganna.

Scopiazzi il modello, ma non pensi che un paio di millimetri di circonferenza si possano tradurre in una differenza perimetrale di quasi un cm e mezzo. E sbraiti, dopo aver scucito tutto e ti passa accanto sciolto quello, che ti apostrofa col sorrisetto bieco: Mai sentito parlare del Pi Greco?
E la cosa più terribile è che sei stata tu, vent’anni fa, a spiegargli la matematica.
Avevo già una lunga lista di buone ragioni per il divorzio, già dopo tre anni. 
Oggi ho finito il settimo quaderno.
Ma vabbè.
Noi siamo abituate a fare e disfare… Giusto?
Il valore del nostro tempo non si misura soltanto in produzione, ma in apprendimento…
Sto finalmente leggendo un libro che avevo comprato anni fa: The Mary Frances Sewing Book, un delizioso libro del 1913, destinato ad insegnare il cucito alle bambine. Mary Frances scopre il Sewing Bird nel cestino del cucito della nonna e lui (che in realtà sembra essere una lei), le insegna a cucire. Dopo le primissime nozioni di base (avvio della gugliata, nodo e imbastitura base), introduce il concetto di pazienza, perché la invita a disfare. Mi ha fatto sorridere.
E cogliere un moto di nostalgia e allarme. L’abbiamo fatta perdere, questa pazienza?
Alla sua maniera, lo canta…
It is the Thimble People’s
pride
That they have ever,
always, tried:
Whenever they fail, –
this is no tale,
As you can easily
guess, –
They twist their
failure round about,
They twist and turn it
inside out;
Then drop it down a
big, black hole,
Discovered in back of
the North Pole, –
And up it jumps –
Success!
Ma non è stato il Pi Greco a farmi davvero arrabbiare.
E neanche la tristezza dei colori usati.
Faccio le foto che servono e ve lo racconto la prossima volta.
Chissà che il cinguettio nel frattempo non mi porti consiglio…